Cinzia - Amici di lourdes

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LA GIORNATA MONDIALE DEL MALATO E LA STORIA DI UN’AMICIZIA CHE SI E’ FATTA PORTATRICE DI GESTI DI CURA SOTTO LO SGUARDO MISERICORDIOSO DELLA MADONNA DI LOURDES
Non possiamo illuderci di “rimanere sani in un mondo malato”.  La recente e attuale  “pandemia” , un virus infinitamente piccolo che fa tremare tutta la terra, oltrepassa i confini e non fa distinzioni  ma riguarda, sotto molti aspetti, “tutto il popolo”, ci dice, fuor di metafora, che la sofferenza è qualcosa di trasversale che può toccare tutti, come esperienza umana spesso ineludibile nel percorso di vita.
Il Coronavirus  ci tiene in pugno con l’arma più potente - la paura- perché in gioco c’è la vita, di ognuno e di tutti, del singolo e della specie.
La paura si fa angoscia perché non si individua il nemico da combattere: esso può essere ovunque e ognuno se ne può fare portatore. L’imperativo è dividere e distanziare per non veicolare il piccolo “tiranno senza cuore”, ma il prezzo da pagare per tenerci in vita è perdere in vita, anestetizzare la nostra esistenza: non incontrare, non stringere mani, non abbracciare e non baciare; alla corazza interiore della diffidenza si aggiunge l’armatura esteriore della “protezione”(guanti, gel e mascherina). Non toccare, non sentire (odorare) ma solo guardare…dove lo sguardo resiste alla desolazione e non si abbassa per sfuggire. La vita ribolle, si agita confusa, fa eco alla sua stessa domanda: per cosa vale la pena vivere?
In questo periodo di crisi il limite diventa sfida esistenziale, domanda delle domande, invito provocatorio a cercare una fecondità nel limite che ci viene imposto e che siamo chiamati a vivere.
Quale fecondità?
Forse, come dice Mariangela Gualtieri nella sua poesia, “ci dovevamo fermare..andava fatto insieme..rallentare la corsa..era desiderio tacito comune come un inconscio volere..e c’è dell’oro..in questo tempo strano. Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo” per poi tornare a riscoprire con rinnovata attenzione e con una dilatata comprensione l’importanza di una stretta di mano per “sentire forte l’intesa”. Non più abitudini ma gesti densi di senso, non più il tempo divorato da un fare frenetico ma un tempo “pesato”, un tempo vissuto, un tempo donato ad un nostro fratello che magari da sempre convive con la malattia o con la sofferenza ma del quale magari non ce ne siamo mai accorti.
Guarire o curare l’esistenza? Con quale “misura”? Allungare la vita o “allargarla”, facendo spazio alla sua connaturale missione? Crescere nella quantità degli anni resi uguali dalle abitudini e continuamente rincorsi o crescere nel diventare pienamente umani, per il compito che portiamo con la nostra venuta al mondo e indipendente dalla lunghezza del percorso? Essere o sapere essere, con la consapevolezza “piena” del senso della vita? Semini di vita chiamati a diventare, come dice sempre la Gualtieri, quel che ogni seme è in potenza: “scrigno di perfezione..miccia inesplosa..particella che sogna addormentata..e poi si slancia scatenata a popolare di sè tutta la terra..in una gioia d’essersi svegliata”.
Emily Dickinson diceva “io vivo nella possibilità”. La possibilità è “poesia”, è creazione, musicalità e ricchezza e non è prosa, non è un andare diritto, consequenziale; è il regno del senso da disvelare e non del fatto da raccontare.  Forse è proprio questa possibilità, che è insieme limite e potenza ( “nel limite delle nostre possibilità”) - che va abitata, spogliandoci dell’ossessione del controllo così come dalla sterile negazione dei fatti. E’ dire sì alla vita in tutte le sue sfaccettature, in tutti i suoi significati, imparando l’arte della “navigazione” che del mare piatto non fa scuola ma ad ogni vento e a ogni corrente sceglie la direzione.
La cura di se  e degli altri, dei pensieri e delle azioni è la via da praticare , e’ l’incontro con la vita e con le sue manifestazioni. Siamo chiamati alla ricerca di un senso che riempia il nostro vivere, ricomponendo gli opposti come in un quadro d’autore, dove fregi e cicatrici rendono unico il capolavoro. Siamo chiamati ad essere attenti e responsabili,  a rispondere a fatti e persone che, nel dolore, ci chiamano , anche quando non hanno voce e parole per farlo.   Siamo chiamati ad essere presenti, perché questo è il vero tempo della vita, della libertà e della responsabilità che si compie, l’appello al quale non mancare per esistere; ma anche essere “presenti” per gli altri, essere cioè dono, capace di farsi “toccare” e di “toccare”, anche con lo sguardo, come primo atto di cura. In quanto “con – temporanei”  dobbiamo forse essere disponibili  a “con-patire”, a partecipare ed essere in comunione con l’altro da noi e con la vita in ogni sua manifestazione.
Un gesto di cura può diventare il primo gradino per salire la scala di ciò che ci eleva e ci fa essere pienamente umani e che ci restituisce quella pace che non ci può essere strappata, la pace e la serenità del cuore.
                                                                                         Cinzia
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